Dopo aver parlato del metodo C.A.R.E. e delle quattro A della relazione di coaching (se ti interessano basta che segui i link!), mi sembra giusto affrontare quello degli errori più comuni.

E’ un punto importante, perché alcuni di questi non sono scontati, e magari non lo sono in altre relazioni d’aiuto.

Per descriverli utilizzo un acronimo, caro ai cugini counselor (e da loro “inventato”), ma che funziona benissimo anche nel coaching.

 

V.I.S.S.I.

 

Valutare

Esprimere giudizi positivi o negativi riferiti a quanto dettoci dal cliente, sia norme o valori, ma anche opinioni, proposte, semplici considerazioni. Inducono ribellione o compiacenza, ma sempre creano aspettativa del nostro giudizio da parte del cliente, creando una sicura interferenza.

Interpretare

Cercare un significato che va al di là di quello che abbiamo ascoltato blocca l’auto-esplorazione, suscita resistenza e senso di incomprensione, inoltre ci sostituiamo al cliente, inserendo il nostro sistema di valori e di pensiero.

Sostenere

Si consola magari minimizzando, si evita l’ansia di lasciar emergere i problemi del cliente; induce sottomissione e non assunzione di responsabilità.

In forma eccessiva finisce per esprimere un giudizio ancorché positivo che di nuovo produce ribellione o compiacenza.

Potremmo anche aggiungere che, se viene richiesto dal cliente, sia uno dei casi di cessione di delega più classici e subdoli.

Soluzionare

Dare le nostre soluzioni senza permettere al cliente di attivare le proprie risorse: è ansia di prestazione per dimostrare competenza da parte del coach e genera ansia anche nell’interlocutore.

Blocca l’autonomia, mette l’altro in posizione passiva, il tipico errore del consulente, a me molto “caro”, provenendo proprio dalla consulenza.

Investigare

Incalza i tempi del cliente per cercare quello che è interessante per noi, fa capire che l’altro non dice quello che dovrebbe, suscita difesa e induce l’altro a non mostrare limiti o difficoltà.

Da non confondere con un uso corretto delle domande.

 

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Come anticipato, alcuni non sembrano errori. Perché non sostenere il cliente se è in crisi, oppure perché non aiutarlo con consigli o possibili soluzioni, oppure perché non forzare con domande dei lati oscuri del racconto che l’altro non vuole aprire?

Il motivo è semplice: anche se sembrano innocenti o in buona fede sono tutte azioni che possono compromettere gravemente il percorso di coaching e, nella migliore delle ipotesi lo rallenta.

A volte il cliente capirà di aver bisogno di risorse o competenze che non ha e noi, questa volta come consulenti, potremmo dargli. E’ un punto delicato e, forse, consiglierei di farlo rivolgere ad altri, ma nel caso fossimo noi a colmargliele è importante far capire i due ruoli, molto diversi.

 

A chi volesse approfondire questi concetti e anche le differenze tra coaching e counseling, consiglio il libro

Spalletta, Germano | “MicroCounseling e MicroCoaching”, Sovera Editore, 2006